La caduta di Fetonte di Pieter Paul Rubens (National Gallery of Art di Washington, 1605).
Eridano è una costellazione meridionale che si sviluppa da nord a sud partendo dal piede sinistro di Orione, rappresentato dalla stella Rigel. Per le nostre latitudini, essa risulta meglio visibile da novembre a marzo. La costellazione inizia con la stella beta Eridani, o Cursa (dall’arabo “al kursiyy al jauzah“, piccolo sgabello, perché posta vicino al piede di Orione), a pochi gradi a nord di Rigel e termina, dipanandosi come un fiume in diverse anse, sempre più strette, con l’alfa Eridani, o Achernar (dall’arabo “al ahir al nahr“, la fine del fiume), impossibile da individuare sopra i 30° di latitudine Nord (più o meno dal parallelo passante per il Cairo in su). Altre stelle importanti sono Acamar, che segna l’inizio dell’ultima ansa del fiume e che nell’antichità ed alle latitudini dei popoli del Mediterraneo era l’alfa e l’ultima stella visibile più a sud della costellazione. Vi è poi delta Eridani, chiamata anche Rana, epsilon Eridani, nota per ospitare il sistema planetario più vicino alla Terra (circa 10 anni luce) popolato da almeno due pianeti, omicron1 Eridani (detta Beid) e omicron2 Eridani (detta Keid), un sistema triplo in cui è recentemente stato scoperto il pianeta HD 26965, da alcuni ribattezzato come il pianeta Vulcano.
MITOLOGIA
Per i Greci, l’Eridano è un fiume. La sua individuazione non è precisa, essendoci diverse fonti che lo posizionano in luoghi diversi. Per Eratostene l’Eridano è il Nilo, considerando anche che questo è l’unico dei grandi fiumi conosciuto nell’antichità che scorre lungo un asse nord-sud; tale ipotesi è rafforzata da Igino, che cita l’analogia tra l’isoletta Canopo alla foce del Nilo con la stella Canopo a sud di Achernar, “la fine del fiume”. L’ipotesi è invece contrastata da Esiodo, che nella Teogonia cita Eridano e Nilo come due fiumi separati. Eschilo lo identificò invece con il Rodano, mentre la maggior parte delle altre fonti identifica l’Eridano con il Po. Altri lo collocano nel nord Europa, qualcun altro lo identifica con l’Eufrate, e Virgilio nell’Eneide (VI, 659) lo cita come uno dei fiumi degli Inferi (il “re dei fiumi”). Qui seguiremo la maggioranza delle fonti assumendo che si tratti del Po.
Il mito in cui è coinvolto l’Eridano ce lo racconta dettagliatamente Ovidio nelle sue Metamorfosi. Fetonte era il figlio di Apollo e di Climene, regina etiope. Era un tempo lontano, in cui gli Etiopi erano tutti di carnagione candida ed Apollo, passando di lì, si invaghì della bella regina, da cui ebbe Fetonte e le Eliadi. Fetonte crebbe e si fece degli amici, tra cui Epafo, che lo prendeva in giro per il suo raccontare le origini divine della sua nascita. Fetonte protestò con la madre, che giurò di averlo avuto dal dio del Sole e lo invitò a raggiungerlo, nella sua casa all’estremo oriente, per chiederglielo di persona.
Fetonte non si lasciò intimidire e partì, camminando fino a che, superata l’India, si trovò di fronte alla residenza dorata del padre. Entrò e gli parlo, e Apollo confermò la storia, ansioso di soddisfare in tutto il proprio figlio. Fino a quando Fetonte non gli chiese di guidare il carro del Sole…
Apollo spiegò al figlio che l’impresa era improba, che i cavalli erano assolutamente incontrollabili, che neanche il supremo Zeus poteva guidare quel carro, ma Fetonte fu irremovibile. A malincuore, Apollo gli concesse il carro, visto che la notte stava per terminare e l’aurora stava già risplendendo. Si raccomandò affinché seguisse alcuni consigli, che ci facciamo raccontare dal talento stesso di Ovidio:
Allora il padre spalmò un sacro medicamento sul volto del figlio, perché tollerasse le vampe voraci, gli pose sulla chioma i raggi, e di nuovo emettendo sospiri d’ansia dal petto, presagendo sventura, disse: “Se puoi seguire almeno questi consigli di tuo padre, evita, ragazzo mio, di spronare, e serviti piuttosto delle briglie. Già tendono a correre di suo: il difficile è frenare la loro foga. E cerca di non tagliare direttamente le cinque zone del cielo. C’è una pista che si snoda obliquamente, con una gran curvatura, e resta compresa entro tre sole zone senza toccare né il polo australe, né l’Orsa dalla parte dell’Aquilone. Passa di lì; vedrai chiaramente le tracce delle ruote. E perché il cielo e la terra ricevano pari e giusto calore, non spingere in basso il cocchio e non lo lanciare troppo in alto nel cielo. Spostandoti troppo verso l’alto, bruceresti le dimore celesti; verso il basso, la terra. A mezza altezza andrai sicurissimo.
E bada che le ruote non pieghino troppo a destra, verso il Serpente contorto, o non ti conducano troppo a sinistra, giù verso l’Altare. Tieniti fra l’uno e l’altro. Per il resto mi affido alla Fortuna…”
Ma niente, Fetonte non fece a tempo neanche a pensare a cosa fare che i cavalli, sentita la mano tutt’altro che forte ed il peso leggero sul carro, capirono immediatamente che a guidarli non era Apollo ma uno sprovveduto.
E si lanciarono al galoppo…
Allora per la prima volta i raggi scaldarono la gelida Orsa, la quale cercò, invano, d’immergersi nel mare ad essa vietato ed il Serpente, che si trova vicino al polo glaciale e che prima era intorpidito dal freddo e non faceva paura a nessuno, si riscaldò e a quel bollore fu preso da una furia mai vista. Raccontano che anche tu disturbato fuggisti, Boote, benché fossi lento e impacciato dal carro tuo. Quando poi l’infelice Fetonte si volse a guardare dall’alto del cielo la terra che si stendeva in basso, lontana, lontanissima, impallidì, e un improvviso sgomento gli fece tremare le ginocchia, e in mezzo a tutta quella luce un velo di tenebra gli calò sugli occhi.
I punti più alti del pianeta cominciano a prendere fuoco, il suolo perde gli umori, si secca e si fende, i pascoli si sbiancano, alle piante si bruciano le fronde, e la messe inaridita fa da esca al flagello che la divora. Ma questo è niente. Ecco che grandi città van distrutte con le loro mura e gli incendi riducono in cenere intere regioni con le loro popolazioni.
Dicono che fu allora che il popolo degli Etiopi, per l’affluire del sangue a fior di pelle, divenne di colore nero; fu allora che la Libia, evaporati tutti gli umori, divenne un deserto.
Il Nilo fugge atterrito ai margini del mondo e nasconde il capo, che non si è più riusciti a trovare;
le sue sette foci restano asciutte, polverose: sette letti senz’acqua.
Fu la madre terra a pregare Zeus di porre fine a quella tragedia, e il padre degli dei, chiamati a raccolta tutti, spiegò che se non fosse intervenuto l’intera terra sarebbe morta. Preparò la sua folgore e colpì in pieno Fetonte, che precipitò in fiamme come una stella cadente dal carro, finendo senza vita nelle acque dell’Eridano. In esso lo ritrovarono molto dopo gli Argonauti, ancora fumante. Emanava un olezzo nauseabondo tale che anche gli uccelli che sventuratamente vi passavano sopra morivano all’istante (pare che l’espressione “odore fetente” derivi da questo mito…). Le Eliadi, sorelle di Fetonte, si radunarono sulle rive dell’Eridano piangendo il fratello fino a che non si trasformarono lentamente in pioppi e le loro lacrime divennero ambra. Anche un altro amico di Fetonte, Cicno, lo piangeva sulle sponde, fino a quando gli dei si impietosirono del suo dolore e lo trasformarono in un candido uccello, il cigno.
Termina così la triste storia di Fetonte, ragazzo imprudente che non volle ascoltare i consigli di un dio e pagò la sua inesperienza ed i suoi danni con la propria vita.