La costellazione dell’Aquila è una costellazione molto antica, già presente nei cataloghi mesopotamici risalenti all’incirca a 3.200 anni fa, in cui era raffigurata posata su una pietra. I greci ne mutuarono l’uso, destinandola in diversi miti, in cui è sempre associata a Zeus.
L’Aquila è la regina tra i volatili, ed è destinata a riportare al dio la folgore scagliata per punire questo o quello. E’ anche però l’Aquila che punisce, come avviene nel mito di Prometeo.
Prometeo (“colui che vede le cose in anticipo”) era un Titano a cui gli uomini erano molto cari, avendoli egli stesso creati dalla fanghiglia di terra e lacrime che aveva originato in un giorno di disperazione, e ad essi insegnò l’arte, le scienze e l’astronomia. Ad essi, inoltre, donò il fuoco che Zeus, per punirli di essersi preso gioco di lui, aveva loro tolto.
La cosa innervosì non poco gli dei e lo stesso Zeus, che lo punì con un supplizio crudele: lo fece incatenare sulle alte montagne del Caucaso e mandò un’aquila a rodergli il fegato per tutta la durata del giorno, per tutti i giorni del tempo. La notte il fegato del dio ricresceva, e il giorno dopo il supplizio ricominciava.
E così, si narra, per oltre 30.000 anni, fino a quando fu liberato da Eracle.
E’ anche l’Aquila che figura in alcune delle versioni del mito del Cigno: Afrodite si trasformò in Aquila per aiutare Zeus, facendo finta di insidiare il dio che si era a sua volta trasformato in un candido cigno per “circuire” Nemesi. La ninfa, impietosita, accolse il cigno, senza sapere chi esso fosse in realtà.
Ed è anche l’Aquila che fu mandata a rapire – e finalmente siamo al mito più conosciuto e duraturo nei secoli – il bel giovinetto Ganimede nei campi appena fuori Troia, per portarlo sull’Olimpo a mescere in eterno nettare e ambrosia nei banchetti degli dei.
Alcuni sostengono che fu lo stesso Zeus a trasformarsi in Aquila per rapire Ganimede, della bellezza del quale si era invaghito. Molte carte celesti disegnano l’aquila intenta a piombare, ad artigli spalancati, sulla vicina costellazione dell’Acquario, che rappresenterebbe appunto il bel Ganimede. Altre la rappresentano già con Ganimede tra gli artigli, nell’intento di portarlo a Zeus.
E su una rappresentazione simile a questa si fonderebbe poi il mito romano, opera di Adriano (siamo quindi intorno al II secolo d.C.) che in questo modo “canonizzò” il suo amante prediletto Antinoo, che morì annegato nel Nilo forse per salvare la vita dello stesso Adriano: la costellazione di Antinoo cominciava appunto ai piedi dell’Aquila, compresa tra il dominio di Marte e Giove – energia, regalità (l’Aquila, appunto) – e quello di Venere – amore (Capricorno) -.