L’asteroide 101955 Bennu ripreso da una delle camere della sonda OSIRIS-REx (Image Credit: NASA)
Quattro anni fa circa partiva da Cape Canaveral a bordo di un vettore Atlas una delle missioni spaziali più innovative, eccitanti e tecnicamente complesse mai partorite dalla fantasia di un umano: OSIRIS-REx (Origins Spectral Interpretation Resource Identification Security Regolith Explorer).
La sonda, delle dimensioni di un furgoncino, ha già raggiunto due anni fa, il 3 dicembre 2018, il suo obiettivo, l’asteroide della famiglia Apollo 101955 Bennu, una patata del diametro di poco più di mezzo km, e da quel momento la sta studiando dalla sua orbita ellittica che va da 700 metri a 5 km di altezza.
Bennu è classificato come condrite carbonacea di tipo B, il che significa che questo asteroide è ricco in componenti volatili del sistema solare primordiale. Anche la sua albedo (la sua “riflettività”, la frazione di luce incidente che viene riflessa dall’asteroide) racconta che si tratta di un corpo molto scuro, indicando un alto contenuto di materiali carboniosi. Inoltre, si ipotizza che questa rara famiglia di condriti carbonacee possa aver subito nessuna o pochissime alterazioni dal momento della loro formazione, il che le rende candidati ideali per l’ambizioso obiettivo della missione.
L’obiettivo della missione OSIRIS-REx
La missione ha diversi obiettivi, ma quello senza dubbio più affascinante – ed è il motivo per cui OSIRIS-REx sta studiando Bennu da due anni – è atterrare sulla sua superficie, recuperare un campione di regolite carbonacea di almeno 60 grammi, stivarlo al suo interno e ripartire verso la Terra, paracadutandolo in uno specifico modulo di discesa (analogo a quello utilizzato per la missione Stardust) nello Utah, dove sarà recuperato – si spera – nel settembre del 2023. Sarà possibile quindi, una volta che il campione sarà analizzato, capire effettivamente la chimica del sistema solare all’atto della sua formazione indagando il contenuto in composti del carbonio quali molecole organiche semplici o complesse, il che potrebbe avere enormi implicazioni sulle ipotesi sull’origine della vita sulla Terra.
Un altro importante obiettivo riguarda la caratterizzazione dell’orbita dell’asteroide Bennu, soprattutto per quanto concerne l’accelerazione a cui è sottoposto per effetto YORP, un acronimo formato dalle iniziali degli impronunciabili cognomi di quattro scienziati, che influisce sulla velocità di rotazione degli asteroidi, e quindi in ultima analisi anche sulla loro orbita.
E perché questo aspetto ci interessa così tanto da aver imbottito quel furgoncino spaziale di ben tre spettrometri (operanti uno nel visibile e nell’infrarosso, uno nell’infrarosso termico e uno nei raggi X) e di una camera deputata alla ricerca di fenomeni di outgasing (“sgasamento”)?
Perché dall’analisi dell’orbita do 101955 Bennu sembra che ci sia una piccola probabilità di (inferiore allo 0,07%, quindi non proprio nulla) di quattro possibili collisioni tra l’asteroide e la Terra nell’ultimo trentennio del prossimo secolo. Determinare quindi precisamente l’orbita ed eventuali “turbative” dovute ad altri fattori, come ad esempio l’effetto YORP, aiuterebbe a stimare correttamente l’eventuale rischio, permettendo, con i dovuti scongiuri di rito, di studiare per tempo eventuali contromisure.
Queste animazioni mostrano un confronto delle dimensioni dell’area di raccolta dei campioni pianificata prima di arrivare a Bennu (arancione) e dopo l’arrivo a Bennu (blu). Il piano di missione originale prevedeva un sito campione con un diametro di 50 m. Tuttavia, la regione di campionamento per il sito Nightingale ha un diametro di circa 8 m. L’area abbastanza sicura da poter essere toccata dal veicolo spaziale è la larghezza di pochi posti auto, in sovraimpressione per dare un’idea degli spazi e delle dimensioni (credits: NASA / Goddard / CI Lab / University of Arizona).
Il tentativo di prelievo verrà effettuato il 20 ottobre prossimo, quando la sonda OSIRIS-REx effettuerà il primo tentativo di atterraggio nel sito scelto durante questi due anni di osservazione in orbita attorno all’asteroide. Il sito, battezzato Nightingale (“usignolo”), ha un diametro di circa 8 metri ma è circondato da tanti massi di grandi dimensioni, per cui la manovra non si prospetta facile. L’area è stata scelta poiché presenta molto materiale a grana fine, per cui viene ritenuta, se pur di difficile approccio, la più promettente per la “qualità” e l’interesse del materiale prelevato.
Si procederà in questo modo. Nella prima manovra di approccio, intorno alle 20 ora italiana, la sonda accenderà i propulsori per lasciare l’orbita e scendere verso l’asteroide, riconfigurando la posizione dei pannelli ponendoli a Y con il corpo della sonda e il collettore rivolto verso il basso. A poco più di 100 metri dalla superficie accenderà nuovamente i propulsori per scendere ancora puntando verso l’area scelta, riaccenderà i propulsori per l’atterraggio a circa metà di quest’ultima fase e poserà in superficie la sola testa del collettore (non quindi l’intera sonda) intorno alle 00.12 ora italiana del 21 ottobre. Aprirà allora una delle tre bombole di azoto pressurizzato che muoverà il materiale presente in superficie in modo che il collettore possa raccoglierle e stivarle, dopo di che accenderà i propulsori per allontanarsi dalla superficie. Si stima che la sonda resterà in superficie circa 10-15 secondi. La cosa più sensazionale di tutto il processo è che verrà eseguito interamente dalla sonda, poiché alla distanza di Bennu, oltre 2 Unità Astronomiche (un’Unità Astronomica equivale alla distanza media Terra-Sole, cioè circa 150 milioni di km), i segnali radio inviati dalla sonda impiegano circa 18 minuti per giungere a Terra, ed altri 18 per ritornare verso la sonda, il che renderebbe impossibile una manovra in real time.
Come verrà verificato il buon esito della raccolta?
Non essendo dotata di una bilancia nella testa del collettore, la sonda effettuerà due operazioni. La prima, due giorni dopo la raccolta, è “scattarsi un selfie” in modo da riprendere il contenuto della testa del collettore. La seconda, altri due giorni dopo, è una manovra di rotazione dell’intero corpo sonda, in modo da determinare la massa presente nel collettore. Se queste due manovre confermeranno la raccolta di almeno 60 grammi di materiale (in condizioni ottimali potrebbe arrivare a raccogliere anche più di un chilo e mezzo di campioni), si procederà al ritorno a Terra, stivando il campione nell’apposita capsula e preparandosi alla partenza che avverrà a 2021 iniziato, con arrivo previsto a fine settembre 2023. Qualora il prelievo non andasse a buon fine, si procederà ad un secondo tentativo, ed è questo il motivo per il quale porta a bordo tre bombole di azoto, per altrettanti tentativi.
Effetto YORP
L’effetto YORP, o effetto Yarkovsky–O’Keefe–Radzievskii–Paddack, amplia la concezione dell’effetto Yarkovsky aggiungendo una serie di fattori che possono incidere sulla velocità di rotazione degli asteroidi. L’effetto Yarkovsky implica che la radiazione solare incidente sull’emisfero dell’asteroide “a giorno” venga re-irraggiata nello spazio sotto forma di calore (o più correttamente, di radiazione infrarossa), inducendo una complessa spinta nella direzione opposta a quella della parte irraggiata, spinta che dipende anche dal senso di spin e dall’orientazione dell’asse di rotazione e dall’inclinazione dell’asse di spin dell’asteroide (quest’ultimo aspetto, studiato dal compianto Paolo Farinella, va sotto il nome di effetto Yarkovsky stagionale è analogo all’effetto stagionale che si ha sulla Terra a causa dell’inclinazione dell’asse durante il moto di rivoluzione intorno al Sole). Questa spinta, questa “accelerazione” è in grado quindi, nel tempo, di mutare anche di molto l’orbita calcolata, spingendo gli asteroidi in orbite potenzialmente risonanti e pericolose per la Terra. All’effetto del calore si aggiungono contributi minimi ma rilevanti in tempi-scala molto lunghi dovuti all’albedo, cioè alla riflettività e all’irregolarità della forma del corpo. OSIRIS-REx, con i tre spettrometri e gli strumenti per caratterizzare le caratteristiche fisiche e dell’orbita di Bennu, contribuirà a calcolare nella maniera più precisa l’accelerazione dovuta all’effetto YORP e a rendere più precisa la stima dell’orbita dell’asteroide nel tempo.
Proprio come il pomeriggio è la parte più calda della giornata sulla Terra, la roccia spaziale sviluppa una regione calda che irradia la luce infrarossa nella sua massima quantità durante il pomeriggio sull’asteroide. Quella radiazione infrarossa in uscita fornisce una leggera ma decisa spinta simile a un getto verso l’asteroide. La direzione della rotazione dell’asteroide determina se “pomeriggio” è avanti o indietro rispetto alla sua direzione di movimento. Se il punto caldo è in avanti rispetto alla direzione del movimento, la spinta a infrarossi rallenterà la velocità orbitale dell’asteroide, e se il punto caldo è indietro rispetto alla direzione del movimento, accelererà il movimento orbitale. Questo effetto, nel tempo, può apportare un cambiamento significativo nell’orbita. Questo è chiamato effetto Yarkovsky, dal nome dell’ingegnere che lo ha identificato per primo (Credits: A. Angelich, NRAO / AUI / NSF).