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Sulla scoperta dei cristallomicrobi Cryms, batteri in animazione sospesa

I Cryms, cristallomicrobi, in coltura e al microscopio elettronico

Campioni dei cosiddetti Cryms, i cristallomicrobi ritrovati in rocce antiche, comprese meteoriti, dai proff. Geraci e D’Argenio

Commenti e impressioni sugli esperimenti del prof. D’Argenio e del Prof. Geraci

La notizia della scoperta di batteri vitali in campioni di rocce e meteoriti, che è rimbalzata tra tutti i telegiornali il 9 maggio scorso ed è stata ripresa innumerevoli volte nei giorni seguenti, lo confesso, mi ha fatto trasalire.
Finalmente, mi sono detto, abbiamo la prova: non siamo soli!
La mia gioia è stata tantissima, sia perché per un “astrobiofilo” come me questa rappresenta “LA” scoperta (di meglio ci potrebbe essere, forse, solo una bella stretta di mano con un Cefalopoide, per dirla alla “Man In Black”…!), sia perché avvenuta qualche piano più su del mio laboratorio all’Univeisità Federico II di Napoli.
Come dicevo poc’anzi, la notizia data ai mass media in conferenza stampa dai Professori D’Argenio e Geraci mi ha riempito di gioia e, sapendo come si lavora in un laboratorio e la “prassi” da seguire per annunciare una scoperta alla comunità scientifica, mi sono subito seduto davanti ad un monitor e ad una tastiera e ho cominciato a cercare l’abstract (una specie di riassuntino del lavoro pubblicato su riviste specializzate e che è di pubblico dominio, cioè gratis… abbonarsi a queste riviste costa un occhio!), ma niente di niente. Nei giorni seguenti ho cercato ancora, ho “ascoltato” i newsgroups (soprattutto quelli astronomici), ho scambiato opinioni con diversi professori e ricercatori dell’Università al fine di capire qualcosa, e ascoltando qui e captando qualcosa là, si è cominciato a comporre un quadro del lavoro del team dei due Professori.
Questo fino a quando, esattamente tre mesi dopo l’annuncio, i ricercatori hanno pubblicato sul loro sito internet (www.cryms.org) la versione dell’articolo che è stata pubblicata sui Rendiconti Accademia Nazionale dei Lincei [s. 9
(Mat.) vol 12, 51-64, 2001], che ha un “impact factor”, cioè, in ambito accademico, il peso, l’importanza della rivista per la carriera e la reputazione del ricercatore, praticamente prossimo allo zero…

Si può riassumere a grandi linee l’esperimento dicendo che il gruppo di studio ha analizzato alcune decine di campioni di rocce (sedimentarie, ignee, metamorfiche) e di minerali con età comprese tra circa un milione e oltre 2 miliardi di anni, riuscendo ad individuare microbi vitali (battezzati “cristallomicrobi“, Cryms), aventi dimensioni di circa un millesimo di millimetro o inferiori, che riacquistavano mobilità e capacità di riprodursi una volta a contatto con una soluzione fisiologica.
Questi microorganismi sono stati estratti dalle rocce mediante incisione dei campioni con aghi sterili che, a detta dei due studiosi, servivano a rompere il reticolo cristallino nel quale i batteri erano imprigionati e protetti, liberandoli.

Un’obiezione nasce spontaneamente: perché finora nessuno li aveva mai visti se la cosa è così semplice?
Mi spiego: considerato il gran numero di analisi fatte su innumerevoli campioni di roccia per i più svariati motivi (penso, ad esempio, agli studi sulla diffrazione o alle analisi al microscopio elettronico) e la (supposta dal gruppo) grande quantità di batteri in essi contenuta, perché nessuno fino ad ora li ha materialmente visti?
Il dubbio più serio, quello capace di distruggere l’esperimento e affossare definitivamente la credibilità dei due Professori, è se alcune delle soluzioni e/o delle apparecchiature utilizzate possano essere state non sterili, contaminate, cioè, da qualche forma nota di “ospite”. Ho usato questo termine perché, secondo la mia opinione, il fatto di non aver osservato funghi contaminanti (eccetto un Lievito, una Candida, che sembra però proviene dal campione e non da contaminazione) nelle capsule Petri (i contenitori di plastica o vetro a forma di piattino nei quali si usa far crescere colture microbiologiche), ma solo batteri, unitamente al fatto che sono stati effettuati controlli negativi (ovvero si è testata la sola soluzione di coltura, senza aggiungervi la polvere derivata dalla triturazione delle rocce), esclude probabilmente (per non dire sicuramente, visto che in questi casi può bastare un sospiro o uno starnuto…!) l’ipotesi di una contaminazione. Per essere ulteriormente sicuri della sterilizzazione dei campioni, infine, D’Argenio e Geraci sostengono di aver riscaldato le rocce da triturare alla fiamma, portandole a temperature nell’ordine dei 500-800°C (e in questo caso andrebbe spiegato come le strutture biologiche abbiano potuto resistere a tale calore). E poi, stiamo parlando di un biologo molecolare, di uno scienziato, cioè, che lavora sul DNA e che si presuppone conosca bene le tecniche di sterilizzazione dei campioni, per cui i dubbi su tale sterilità restano ben pochi.

Il lettore potrebbe essere indotto a giudicare chi scrive come uno che crede ciecamente in questo esperimento, che non ha dubbi, ma si sbaglia di grosso (mi consenta…). Dubbi ne ho tantissimi, che spaziano dal perché la pubblicazione dei dati è avvenuta ben tre mesi dopo la famosa conferenza stampa (il sito www.cryms.org sui Cryms, queste “creature delle rocce”, passatemi la definizione poco “scientifica”, è stato praticamente fermo al giorno dell’annuncio fin quasi alla metà di agosto) al perché è stata fatta una pubblicità cosi poco ortodossa (la scoperta è stata annunciata con una conferenza stampa) e al perché è stato concesso a chiunque di commentare anche a sproposito la scoperta, infarcendola di navicelle spaziali, alieni e sabotaggi dei potenti…
Questo, a ben guardare, sta diventando un modo di fare piuttosto comune: si predilige l'”annuncio shock” alle agenzie di stampa invece che la più seria prassi consistente nella pubblicazione su riviste specializzate e, solo dopo, l’annuncio ai mass media. Un altro esempio recente, che conferma questo deprecabile costume, è dato dalla notizia che un team di scienziati australiani avrebbe scoperto il modo per creare un embrione utilizzando solo l’ovulo femminile e non anche lo spermatozoo maschile. Anche in questo caso, infatti, abbiamo la notizia ma non riscontri su riviste specializzate, anzi, sembra addirittura che ci sia solo l’idea di come fare, ma nessun esperimento a conferma!
Leggete cosa scrive al riguardo il premio Nobel Renato Dulbecco (tratto dalle pagine di “La Repubblica”):
“[…] La scoperta di cui parliamo è stata divulgata come un fatto compiuto, ma è solo un’idea e, devo confessare, un’idea stupida: si è fabbricato un embrione con la tecnica indicata, ma non è stato immesso nell’utero; non si sa nulla di come si svilupperà, quali saranno le caratteristiche dell’individuo che ne deriverà. Perché annunziare questa notizia con tanta fanfara come se fosse una scoperta rivoluzionaria?
Nel comunicare scoperte scientifiche c’era nel passato la buona abitudine di divulgarle solo dopo che erano passate al vaglio di revisori competenti che le giudicavano sufficientemente provate per pubblicarle in una rivista scientifica. Adesso invece ci si rivolge direttamente ai media, si strombazza la grande scoperta, che poi cadrà nel nulla. Cosa ne penserà il pubblico? Che immagine ne trarrà sia della notizia che degli scienziati?
[…]”

Questo discorso aprirebbe una parentesi lunghissima sul perché, oggi, si privilegi questo modo di agire: se la notizia ha una vasta eco (come solo i mass media possono garantire e come nessuna rivista specializzata potrebbe mai aspirare a
fare), infatti, non solo ci si garantisce una notorietà maggiore, ma è anche probabile suscitare interessi da parte di possibili finanziatori del progetto. Ecco, quindi, spiegate a grandi linee le motivazioni alla base di questo disdicevole costume, che aprono, a loro volta, un discorso sul perché si ricorra a questi mezzucci per cercare fondi (i finanziamenti istituzionali vanno infatti sempre più rarefacendosi…), ma questo ci porterebbe troppo al di là dell’oggetto di queste pagine…
Torniamo quindi a noi. A pensarci bene, D’Argenio e Geraci hanno spiegato la scelta della conferenza stampa prima della
pubblicazione del lavoro sui Cryms asserendo che l’esperimento è di una facilità talmente disarmante che chiunque avrebbe potuto rubare l’idea e la gloria, compresi i membri incaricati della revisione scientifica degli articoli da pubblicare, i cosiddetti referees (e vi assicuro che nel mondo scientifico non è infrequente il furto del lavoro altrui…); questa spiegazione può anche andare bene, ma avrebbe dovuto essere seguita a breve termine (e per breve intendo giorni, al massimo una settimana) da qualcosa di tangibile, di universalmente accettato dalla comunità scientifica mondiale (una lettera firmata e inviata ad una rivista specializzata, come Science o Nature, ad esempio)… Tutto ciò non c’è stato e, insieme al silenzio dei due Professori (rotto solo dall’articolo apparso su l’Astronomia di giugno, risalente comunque ai primi di maggio), ha fatto gridare alla burla su numerosi newsgroups e a molti scienziati di chiara fama.
L’ultimo aspetto sul quale mi vorrei soffermare e che per le conclusioni tratte dai due Professori (e dalla stampa!) è
fondamentale, è la diversità genetica dei batteri ritrovati da D’Argenio e Geraci rispetto ai batteri attuali. Le voci di corridoio davano per certa la scoperta di batteri con un numero enorme di differenze, addirittura con DNA completamente sconosciuti, ma ora è assodato che le differenze ci sono e sono sostanziali, ma non tante e, soprattutto, non tali da far gridare alla scoperta di nuove creature. Questo aspetto si inserisce nel discorso dell’origine della vita nel Sistema Solare e nelle conclusioni a cui sono giunti in molti, secondo le quali la scoperta sarebbe la più consistente prova a favore della teoria della panspermia di Fred Hoyle. Non so, infatti, come interpretare le poche differenze tra i batteri attuali e i Cryms se non ammettendo che i Cryms siano stati intrappolati per anni (migliaia o milioni, a seconda dell’età dei campioni), ipotizzando i seguenti tre scenari.

SCENARIO 1: I fenomeni geologici che si susseguono durante le ere geologiche portano alla dissoluzione delle rocce che, visti i risultati dei Professori Geraci e D’Argenio, conterrebbero batteri extraterrestri a profusione (nella conclusione del loro lavoro si legge chiaramente che questi erano già presenti “nel materiale iniziale dal quale hanno preso origine il sistema solare, la Terra e i pianeti“). Ciò significa l’incessante immissione nell’ambiente di batteri con codice genetico più antico (risalente cioè al periodo in cui tali organismi furono inglobati nelle rocce), il che risulterebbe in differenze minime tra i batteri da noi conosciuti e quelli scoperti dal team napoletano.

SCENARIO 2: I batteri non evolvono. Questa sembra un’assurdità ma, a quanto pare, questo è proprio il pensiero del gruppo di ricerca. Tale idea, a quanto si dice, viene portata avanti da diverso tempo (non mi chiedete con quali argomentazioni, poiché la vicenda ci costringe a ragionare sui “si dice”) soprattutto dal Prof. Geraci, e le risultanze che i “nostri” dicono di aver raccolto potrebbero essere utilizzate proprio per confermare tale scenario (sono sicuro che una notizia come questa scatenerà un putiferio in seno alla comunità scientifica mondiale… staremo a vedere!).

SCENARIO 3: I Cryms altro non sarebbero che batteri terrestri che hanno contaminato, all’epoca della loro formazione, le rocce nelle quali sono stati ritrovati (comprese le meteoriti; esistono diversi studi, molti effettuati per confutare i risultati del gruppo che analizzò ALH84001, che confermano la disarmante facilità con la quale oggetti extraterrestri vengono contaminati da materiale biologico terrestre). Come per lo scenario 1, anche in questo caso fenomeni di dissoluzione agirebbero liberando le “creature delle rocce”. L’evoluzione, poi, porterebbe a generare le differenze riscontrate tra i batteri intrappolati e quelli “liberi”. Alla luce di quel poco che si sa dell’esperimento di Geraci e D’Argenio, quessto sembra di gran lunga lo scenario più probabile, anche se il concetto stesso di evoluzione porta ragionevolmente a ritenere che le differenze genetiche tra batteri intrappolati e attuali debbano essere direttamente proporzionali all’età delle rocce che li contengono (e non sembra, guardando ai risultati delle analisi genetiche, che questo assioma si sia effettivamente verificato…).

Una buona occasione per chiarire gli aspetti tecnico-scientifici di questo lavoro sarebbe potuta essere il “First European Workshop on Exo-Astrobiology”, organizzato dall’European Esobiology Network e dall’European Space Agency all’ESRIN di Frascati dal 21 al 23 maggio scorsi. Infatti, nel programma del Workshop, era previsto per il 22 maggio, nella sessione “How does Life adapt to the Extremes”, l’intervento “How are Microbes in Ancient Rocks” di D’Argenio… ma il professore non ha partecipato, sembra, per “motivi di salute”.
Non ci resta che aspettare il fatidico “secondo esperimento” per osservare le reazioni della comunità scientifica mondiale, che può ora confrontarsi con questa notizia secondo i protocolli standard dell’incedere galileiano della scienza. Ora, finalmente, si può ripetere l’esperimento utilizzando la stessa “ricetta” messa a punto dai Proff. Geraci e D’Argenio, e si vedrà presto, ne sono convinto, se la scoperta del team napoletano aprirà un nuovo filone di ricerca nella verifica delle teorie sull’origine della vita o verrà messa da parte e ricordata solo come una colossale cantonata.

(Piter Cardone – Pubblicato su “AstroEmagazine” n. 19, Settembre 2001, pagg. 33-34)

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