La Nebulosa Velo, scoperta da William Herschel, è una vasta nebulosa diffusa visibile nella parte sudorientale della costellazione del Cigno posta ad una distanza – secondo i dati del Far Ultraviolet Spectroscopic Explorer (FUSE) – di circa 1.470 anni luce. La nebulosa è un antico resto di supernova: la stella che ha originato quest’oggetto è esplosa diversi millenni fa. Ciò che ora è visibile sono dei debolissimi filamenti, ancora in espansione alla velocità di decine di km/s.
Che gli eventi astronomici possano influenzare l’ambiente terrestre, condizionandone gli ecosistemi e la stessa vita, è una possibilità che ha il sostegno oggettivo di prove materiali inconfutabili. E’ il caso delle maree lunari e solari o delle tempeste geomagnetiche che hanno origine da parossismi di attività della nostra stella, ma anche, più drammaticamente, degli impatti di asteroidi e comete sulla superficie del pianeta, con effetti catastrofici sull’ecosistema e sull’evoluzione dei viventi. Sembra però anche il caso di eventi quali le supernovae, esplosioni di enorme potenza che segnano la fine di una stella, rendendola a volte più luminosa della stessa galassia in cui ha dimorato nel corso della sua esistenza.
Un gruppo di ricercatori sostiene di aver trovato i segni inequivocabili dell’esplosione di una supernova verificatasi a poche decine di anni luce dal Sistema Solare, sepolti tra le rocce risalenti a circa tre milioni di anni fa dei fondali dell’Oceano Pacifico. Una supernova è un fenomeno raro all’interno di una stessa galassia: si pensi che in epoca storica ci sono registrazioni di pochissimi eventi nella nostra Via Lattea, tra cui quello che diede origine alla Nebulosa Granchio (M1) tra le “corna” del Toro, registrato dai cinesi nel 1054, quello del 1572 (la supernova di Tycho Brahe, in Cassiopea) e quello del 1604 (la cosiddetta supernova di Keplero, in Ofiuco); una supernova vicina, poi, è decisamente poco frequente, statisticamente quantificabile in un evento ogni milione di anni.
Per capire la correlazione tra quello che i ricercatori hanno trovato e una supernova, bisogna ricordare che prima di questa drammatica fase una stella di massa superiore a 8 masse solari ne attraversa diverse altre: si comincia con quella caratterizzata dalla combustione dell’idrogeno a formare elio, che segna l’ingresso della stella nella Sequenza Principale; poi, quando l’idrogeno al centro si esaurisce, il nucleo si contrae sotto il peso degli strati superiori; ciò ne aumenta la temperatura e quindi la capacità di innescare reazioni di fusione di nuclei via via sempre più pesanti, tra i quali lo stesso elio, il carbonio e poi il neon, l’ossigeno, il silicio fino ad arrivare al ferro, che la stella non può “bruciare”, per motivi che la fisica nucleare sa spiegare. Questo elemento, quindi, si accumula nel nucleo, che è ormai inerte, ossia non sviluppa energia. A un certo punto, il nucleo non riesce più a reggere il peso della stella, collassa e poi “rimbalza”, rilasciando in pochi secondi la stessa energia che il Sole sviluppa in un miliardo di anni.
La chiave dello studio in questione, pubblicato su Physical Review Letters, è proprio il ferro, e per la precisione un suo isotopo, il 60Fe, prodotto in quantità enormi dalle supernovae.
Secondo i ricercatori, aver trovato tale isotopo radioattivo è la prova tangibile di un’esplosione vicina. Analizzando 28 campioni di rocce prelevate a quasi 5000 m di profondità dalla crosta oceanica ricca in ferro e manganese del Pacifico, i ricercatori hanno ricostruito la quantità di 60Fe incorporato nei fondali negli ultimi 13 milioni di anni. In tutto l’arco di tempo preso in esame la quantità di 60Fe non ha mai superato il valore medio atteso per quel tipo di roccia, tranne che per tre strati risalenti a 2,4-3,2 milioni di anni fa: in tali strati, l’ammontare di 60Fe misurato è consistente con quanto atteso da una supernova esplosa a circa 100 anni luce dalla Terra.
La quantità di isotopi del ferro rinvenuta nelle rocce permette di risalire al flusso complessivo di raggi cosmici che ha investito la Terra; secondo i calcoli, esso dovrebbe essere stato di almeno il 15% superiore al normale per un periodo di tempo piuttosto lungo, valutabile in circa 100 mila anni. L’interazione tra raggi cosmici e nuclei dell’atmosfera avrebbe creato particelle cariche che avrebbero favorito un aumento della copertura nuvolosa a bassa quota e un progressivo raffreddamento del clima, che avrebbe in ultima analisi portato all’aumento dei ghiacci ai poli e a condizioni progressivamente più aride in Africa, la culla dell’umanità.
Com’è noto, le variazioni ambientali sono i presupposti per generare nuovi step evolutivi, in quanto capaci di selezionare le specie più adatte alle nuove condizioni, ed è proprio a questo periodo, circa 2,8 milioni di anni fa, che nel continente africano i dati fossili e gli antropologi fanno risalire la riduzione delle foreste e l’aumento delle savane che spinsero i primi ominidi a scendere dagli alberi e ad imparare a camminare eretti per difendersi e per procacciarsi il cibo.
E’ quindi possibile che dalla spettacolare fine di una stella abbia avuto inizio, sul nostro pianeta, il cammino dell’uomo.
(Piter Cardone – Pubblicato su “Le Stelle” n. 26, Febbraio 2005, pagg. 22-23)