Il Grande Carro nell’Orsa Maggiore e l’Orsa Minore (credits: Catskills NY Astrophotography)
Ci stiamo avvicinando all’inverno, e chi è fortunato possessore di un pezzetto di giardino davanti casa avrà probabilmente notato che, come ogni anno di questi tempi, ha rifatto capolino e preso fermamente possesso del terreno un pettirosso (Erithacus rubecula). Questo piccolo passeriforme insettivoro è un uccelletto amichevole, ma fortemente territoriale, ed in effetti di solito ve n’è solo uno per giardino. Mi è infatti capitato di vedere con quanta violenza accolgono i malcapitati (soprattutto se della stessa specie), e con quale caparbietà li mettono in fuga.
Forse è per questo che Fabrizio De Andrè, in quel capolavoro che è La domenica delle salme (Le Nuvole, 1990), lo definisce “pettirosso da combattimento”…
Ci sono diverse ragioni “mitologiche”, se vogliamo, per il ritorno del pettirosso in questo periodo, e soprattutto per come il pettirosso è divenuto l’uccello che tutti conosciamo, cioè assolutamente inconfondibile dalla caratteristica macchia rossa sul petto. Nell’Europa cristiana si vuole la macchia rossa dovuta al fatto che il piccolo passero, addolorato per la triste sorte toccata a Gesù Cristo, avesse provato a togliere dal capo del figlio di Dio la corona di spine, ferendosi il petto e rimanendo macchiato per sempre dal suo sangue.
Ma una leggenda che si racconta tra gli indiani del nord America e che riguarda il cugino americano del nostro pettirosso (Merula migratorius, della famiglia dei Turdidi), un uccello più slanciato nel piccolo corpicino e con una macchia rossa molto più estesa del nostro, è molto più articolata ed interessante. Il pettirosso, infatti, prese parte insieme ad altri uccelli di specie diverse, alla Caccia alla Grande Orsa (una versione del mito, narrata dagli algonchini, l’abbiamo già raccontata tra le pagine di questo blog), comportandosi, vista anche un’indole aggressiva inversamente proporzionale alla sua stazza, da assoluto protagonista.
Veniamo ai dettagli.
Immaginate che a raccontare questa storia siano gli anziani della tribù indiana dei Mi’kmaq, che alberga in Nova Scotia, ad una latitudine paragonabile alla nostra Milano. E’ estate, che da quelle parti è una stagione più fresca della nostra, e la tribù si ritrova davanti al fuoco, di sera, un momento conviviale e di comunione, inteso come riunione. Un anziano, smuovendo i rami che alimentano il fuoco comincia a raccontare della storia di sette uccelli a caccia, nel cielo, di una Grande Orsa. A primavera inoltrata questa, rappresentata dalle quattro stelle del trapezio del Grande Carro (Dubhe, Merak, Phecda e Megrez) si sveglia dal lungo letargo invernale ed esce dalla sua tana, nella costellazione della Corona Boreale, e scende sulla terra per rifocillarsi dopo il lungo digiuno. Viene subito avvistata dalla Luisa dalla testa nera, un uccello della famiglia delle cince che in nord America chiamano Chickadee e che possiede una vista acutissima, ma è troppo piccola per fare qualcosa e chiama quindi rinforzi. Alla fine saranno in sette i cacciatori che si lanceranno in fila all’inseguimento del grande plantigrado: il pettirosso, la prima stella del timone del Grande Carro, quella più vicina all’orsa per intenderci, la stella Alioth. Dietro il pettirosso si piazza la cincia, che si porta appresso una pentola per cucinarla (la coppia Mizar e Alcor), quindi la ghiandaia grigia (l’ultima stella del timone del Grande Carro, Alkaid), poi il piccione (gamma Bootis, chiamata Haris dall’arabo al haris al sama, la guardia), la ghiandaia azzurra (epsilon Bootis, Izar, dall’arabo per velo), il gufo, la brillante Arturo, alfa del Boote, ed infine il gufo acadiano, o saw-whet, un piccolo gufo nordamericano rappresentato dalla stella Mufrid (eta Bootis). L’Orsa fugge per tutta l’estate, inseguita con caparbietà dai cacciatori affamati, e man mano che si va dall’estate all’autunno, i cacciatori nelle retrovie cominciano a perdere la pista. I primi ad abbandonare la caccia sono i due gufi, Mufrid ed Arturo, e gli anziani si raccomandano di non deridere il gufo acadiano, né di imitare il suo verso stridulo, perché egli discenderebbe dal cielo di notte con una fiaccola di corteccia di betulla a dar fuoco ai vestiti della persona così sfrontata e irrispettosa.
Rappresentazione schematica delle costellazioni che circondano l’Orsa Maggiore e delle stelle che, sotto forma di uccelli, partecipano alla caccia alla grande Orsa (Image Credit: Evans&Sutherland’s Digistar 6 / Masha Manapov / Paul Cornish – modificato)
Ancora, la caccia prosegue e ancora gli ultimi cacciatori della fila perdono la pista, la ghiandaia azzurra ed il piccione, e restano ad inseguire l’Orsa solo il pettirosso, la cincia con la pentola e la ghiandaia grigia. A metà autunno i tre cacciatori rimasti finalmente raggiungono la preda ed il pettirosso, che come abbiamo visto non le manda certo a dire, sferra il primo attacco, non solo per la sua spavalderia, ma anche perché, essendo piccolo e magrolino, sente più degli altri i morsi della fame. In trappola, l’Orsa si prepara a difendersi, alzandosi sulle zampe posteriori, ma viene trafitta dal pettirosso che, affamato, non aspetta a fiondarsi sul succulento grasso della bestia ferita, sporcandosi del suo sague. Cerca allora di pulirsi, volando alto e provando a scrollarsi il sangue di dosso, ma non vi riesce completamente: quello che cade giù tinge di rosso le foreste degli aceri, ma le resta una piccola macchia sul petto che non si toglierà mai più. Una variante indica che il pettirosso si sia avvicinato troppo al fuoco che cuoceva la carne, restandone irrimediabilmente bruciato sul petto. Giunge nel frattempo Chickadee, la cincia con la pentola, e i due si apprestano a tagliare la carne dell’orsa e a cuocerla, e dalla carne sul fuoco cola del grasso bianco che è rappresentato, nella fantasia dei Mi’kmaq, dalla bianca coltre di neve che ricopre i boschi durante l’inverno. La carne ormai è cotta, e proprio mentre il pettirosso e la cincia cominciano con il primo boccone, arriva anche la ghiandaia azzurra. Gli anziani raccontano che dapprima questa aveva perso la pista, ma poi, ritrovatala, non si era affrettata poi tanto, visto che al pettirosso e alla cincia sarebbe occorso del tempo per cuocere la carne. Essi soprannominano i cacciatori che hanno questo disdicevole comportamento, quello cioè di presentarsi a reclamare la loro parte pur senza aver avuto parte attiva nella caccia, Mikchagogwech, quelli-che-arrivano-all’ultimo-momento, e non lo intendono certo come un complimento…
Sta di fatto che i tre si godono l’agognata ricompensa, pulendo ben bene le ossa dell’orsa. Ma il suo spirito è già in un’altra grande orsa, che dorme nella sua tana ed in tarda primavera tornerà a svegliarsi, per ricominciare e ricominciare ancora.
Raccontare questa storia significa immergersi nelle abitudini di vita dei Mi’kmaq, nel loro modo di intendere la natura e di osservarne ed interpretarne gli aspetti più particolari. Tutta la storia è una metafora, una trasposizione in cielo di quanto avviene sulla terra, dal comportamento degli uccelli a quello degli alberi, al movimento delle stelle. Tutto collegato, tutto sincrono, tutto simbiotico.
In primavera la Corona Boreale, la tana della Grande Orsa, vista anche la forma che ricorda l’ingresso di una caverna, è sopra la costellazione dell’Orsa Maggiore per cui si dice che l’orsa si sveglia ed esce dalla sua tana, “scendendo” sulla terra per nutrirsi. In questo periodo, e fino all’inizio dell’autunno, tutte le stelle rappresentate dagli uccelli e menzionate come cacciatrici sono visibili sopra l’orizzonte, ma con l’inesorabile ruotare della volta celeste attorno al polo, le stelle con declinazione minore cominciano pian piano a sparire sotto l’orizzonte, ovvero “perdono la pista”, abbandonano la caccia, quando l’Orsa di inverno si alza sulle zampe posteriori, ovvero punta la sua coda verso il basso. Alla fine restano solo le tre stelle del timone del Grande Carro, che sono quelle che si spartiscono il ricco bottino. Anche il momento in cui l’Orsa viene uccisa è spiegato con l’osservazione di quanto avviene in terra. E’ quasi inverno, e l’Orsa è di certo più grassa per aver immagazzinato tutte le riserve prima del letargo. E’ quindi più goffa, più lenta, e può essere più facilmente preda dei cacciatori. Infine, abbiamo già spiegato la colorazione rossa delle foreste d’acero (il sangue dell’Orsa, il colore dell’autunno) ed il loro ricoprirsi di neve (il grasso dell’Orsa).
Questa storia fa sorgere alcune interessanti deduzioni, come quella che deve essere stata “inventata” ad una latitudine di circa 40°N. Infatti, se fosse stata raccontata più a sud, avrebbe potuto presentare almeno un cacciatore in più, mentre più a nord un cacciatore in meno, visto che anche “l’ultimo arrivato” sarebbe tramontato dietro l’orizzonte. Ancora, la corretta osservazione delle stelle coinvolte nella Grande Caccia ricalca la corretta attribuzione del nome agli uccelli che inseguono l’Orsa, per cui abbiamo il pettirosso (già spiegato), la cincia (la più piccola di tutte), la ghiandaia grigia, il piccione, la ghiandaia blu (per le sfumature azzurre di Izar), il gufo (l’uccello più grande perché Arturo è la più grande delle stelle che cacciano l’Orsa) e il gufo acadiano, che ha delle caratteristiche piume rosse dietro la testa che forse richiamano alla leggenda della corteccia di betulla di cui abbiamo scritto più su.